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La Ristorazione ai tempi del Covid – News
- Luglio 16, 2020
- Pubblicato da: Gestore Roma
- Categoria: Blog Notizie Roma Parola ai docenti UET informa
La Ristorazione ai tempi del Covid – News!
del docente Giovanni Di Tomaso
consulente del gruppo www.mfbconsulting.it
Un proverbio cinese recita: “Quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono dei ripari ed altri costruiscono dei mulini a vento.”
Aggiungo: i ristoratori oggi, in tempo di Covid, devono e possono costruire entrambi.
Partiamo dai ripari
Anzi, dai pericoli da cui ripararsi, che già prima del Covid erano numerosi, e taluni allarmanti, come segnalato:
- “Il 59% di ristoranti falliscono entro i primi 3 anni di attività” (HG Parsa, Cornell)
- “La vita media di un restaraurant start up con 5 dipendenti è di 3,75 anni” (U.S. Bureau of Labor Statistics)
- “In Italia nel 2018 chiudono 26 mila attività ristorative”
Nell’era pre-covid, dunque, non tutto era rose e fiori, ma…
…ma nel 2018, in Italia, oltre al record di chiusure succitato, c’è un dato che conforta: il record di 85 miliardi generati dal settore ristorazione.
In altre parole, non si era mai incassato tanto!
Come è possibile, dunque, che durante l’anno dei record nel nostro Paese ci siano state anche così tante chiusure? Da una parte il primato di ricavi fa pensare che i volumi di vendita non siano il problema… o almeno non lo siano per tutti.
Approfondendo, infatti, tra le problematiche che più affliggono i ristoranti ci sono:
- Location sbagliata
- Mancanza di identità e diversificazione
- Investimento sottostimato
- Basso livello di competenze
I volumi di vendita
I primi due hanno a che fare proprio con i volumi. Le attività chiuse e non più riaperte (nel 2018 circa la metà delle 26mila chiusure), fanno desumere che altri imprenditori si sono rifiutati di investire in location già dimostratesi sfavorevoli. Di quelle fallite per mancanza di identità non si hanno cifre certe. Ma sembrano destinate a ridursi naturalmente, per il migliore approccio, oggi, degli imprenditori al restaurant business rispetto al passato.
Il terzo punto può comunque includere il quarto, in quanto stimare un investimento richiede competenze.
Il vero nodo da sciogliere, dunque, che resta costante nel tempo e che porta al fallimento, nonostante gli alti volumi, resta il basso livello di competenze.
A questo punto mi chiedo: è mai possibile che un’intera industria soffra della mancanza di competenze?
Mi sono dato più spiegazioni.
Le competenze nel Food and Beverage
Innanzitutto, le tante competenze necessarie nel Food and Beverage.
Un ristoratore, anche con un locale di pochi posti, in teoria dovrebbe poter contare su un team di esperti tra cui uno chef, un capo servizio, un esperto di vini (e in alcuni casi anche di uno di beverage e mixology) un esperto di gestione economica, altri di HR, di Customer Care, di ricerca e analisi di mercato, di promozione, social marketing, copy e comunicazione, pianificazione strategica, design e arredo, sales e persino stewarding.
…in teoria.
Nella pratica, comunque, un ristoratore deve poter contare su qualcuno, all’interno del proprio team o entourage, che almeno parte di quelle competenze ce l’abbia, e per il resto dovrebbe rivolgersi a consulenti esterni.
Sintetizzando, la prima causa del basso livello di competenze, è proprio l’alto numero di competenze richieste.
E in molti casi, anche solo una di quelle elencate richiederebbe un’intera vita per padroneggiarla.
Ma resta la domanda: perché questo succede nella ristorazione e non altrove?
La Ristorazione, un mix di manifatturiera e servizi
Credo che la risposta risieda nella natura ibrida della ristorazione stessa, che è un mix di due tipologie di industrie: manifatturiera e di servizi.
In altre parole, c’è bisogno sia di chi crea che di chi vende.
Ma non è l’unica difficoltà.
Immaginate qualcuno che gestisca un negozio di scarpe. Questi sa molto bene quanto gli costano i prodotti che vende.
Un ristoratore no. Deve prima calcolarlo. E, rispetto al paio di scarpe, un piatto va prima standardizzato nelle grammature, procedure e costi (e qualcuno lo fa). Questi valori andranno poi verificati e aggiornati mensilmente (attività che svolgono in pochissimi). Inoltre, se un paio di scarpe resta in magazzino, a distanza di anni può ancora essere calzato e venduto.
Una mozzarella dopo un paio giorni non può più essere usata. L’alta deperibilità degli alimenti, dunque, e la vendita di prodotti trasformati complicano ulteriormente le cose.
Infine, anche un piccolo locale ha bisogno di cuochi, camerieri, lavapiatti e gestori in numero eccessivo rispetto alle entrate (l’incidenza del costo Labor si aggira tra il 40% e il 50% del fatturato…). In definitiva, la ristorazione appartiene alla sfera di industrie “detailed oriented”, come quelle del lusso, senza però poter contare su prezzi “di lusso”. Tutto questo rende la ristorazione di difficile successo economico.
La Ristorazione ai tempi del Covid: quali opportunità?
Tornando al Covid, perché questo particolare momento potrebbe essere visto come un’opportunità?
Innanzitutto per creare quei ripari diretti a risolvere o ridimensionare i vecchi problemi fin qui discussi. Mi riferisco alla costruzione di un modello di gestione ed analisi, capace di individuare le criticità giorno per giorno e prima che diventino voragini ingoia-profitto, e che dia il pieno controllo dell’attività. Non sto parlando di un paio di strumenti, ma di un vero e proprio metodo che ne includa diversi (ricette, inventari, menu engineering, KPI, bilanci operativi, etc..) e che li faccia comunicare tra loro.
Ricapitolando, il primo passo, ossia creare ripari, per un ristorante significa implementare quel metodo, con la formazione e un piccolo investimento per farsi affiancare e guidare da chi sa farlo.
Ciò porterà benefici sia immediati che a lungo termine.
Proprio come i modelli di controllo di gestione che aiutiamo a costruire durante i nostri corsi dedicati, alla UET di Roma.
Razionalizzare, come?
Ma tra gli altri ripari più immediati, volti a parare i colpi di quelle misure anti-covid sacrosante, ma che nel migliore dei casi dimezzano i volumi, bisognerà razionalizzare.
Come?
Volendo semplificare, si tratterà di ridurre l’offerta (in menu) e di conseguenza il costo Labor in cucina e, lì dov’è possibile, anche in sala.
In tempi eccezionali servono misure eccezionali. Quindi, ridurre un menu di 20 voci a 8, non sarà la fine del mondo. Con creatività ed equilibrio, la riduzione dell’offerta permetterà di risparmiare tempo e soldi e renderà la vita più facile a chi approfitterà di questo momento anche per dare un’impronta professionale alla propria gestione.
Come?
Implementando quel Metodo di cui si è già detto. Esso sarà scientifico, nel senso che genererà risultati in base a dati reali e non a impressioni. E chirurgico, nel senso che analizzerà le vendite di ogni voce in menu, lo spreco per ogni alimento e bevanda, il prezzo di ogni prodotto, la performance di ogni singolo operatore e così via…
Questo metodo di controllo influirà sull’incidenza del Food Cost e di tutti i costi variabili, lasciando un buon margine di profitto che oggi, per chi naviga a vista, viene inghiottito dagli sprechi. E parallelamente si dovrà pensare alla fase successiva, che, invece, ha a che fare con i mulini a vento.
Al momento i mulini capaci di sfruttare quel vento di cambiamento sono conosciuti comunemente come Delivery. Ma ce ne sono altri, meno conosciuti e complementari ai primi, che si chiamano Dark Kitchen e Virtual Brand.
Il Delivery
Innanzitutto, il delivery.
Certamente i protagonisti del momento, Gloovo, Deliveroo, Uber Eats e simili portano costi aggiuntivi (all’incirca il 30% di commissioni sullo scontrino, più i costi per il packaging e per la spesa labor ad hoc). Ma il delivery sarà capace di generare mediamente il 30% dei ricavi futuri.
Se, in altre parole, con i clienti in house si generano, ad esempio, 100 mila euro, con l’aggiunta del delivery i ricavi totali potranno salire a €142 mila (€100.000 / 0,7). E anche se, tolti i costi diretti (commissioni, alimenti, packaging e labor), restasse solo il 30% di quel gettito extra (€42 mila), si avrà comunque un margine di profitto ulteriore di circa 10-15 mila euro…
Not bad…
Per chi, invece, può contare su risorse che gli permettono di investire, potrebbe anche valutare l’opzione dark kitchen + virtual brand. Bisogna, innanzitutto, partire da un’idea. Da un prodotto nuovo. E testarlo solo e unicamente in delivery.
La Dark Kirchen
Immaginate un ristoratore a Roma che volesse portare una sua idea a Milano. Prima di investire in un nuovo locale, oggi, può affittare una dark kitchen, che non è un film giallo/horror… ma una cucina laboratorio, pienamente attrezzata, dove il nuovo prodotto sarà testato, poi preparato, cucinato e impacchettato per la vendita in delivery.
Le cucine avranno un costo (di 500 euro a settimana circa), così come il lancio e la promozione del prodotto (anche e soprattutto social e web). Ovviamente bisognerà avere a libro paga un paio di operatori all’interno di quella dark kitchen. Ma non si avranno camerieri, maitre o somelier, né altri costi di servizio come tovagliato, consumi, lavaggio posate, vasellame, piatti e tutti gli altri costi accessori, né occorreranno gli ingenti investimenti che comporta un ristorante.
In altre parole, il brand è virtuale, nel senso che l’identità e il logo non rappresentano un ristorante fisico.
Ma il prodotto (e relativo profitto) è reale.
Questo percorso non è immune da rischi, che restano comunque inferiori a quelli della ristorazione classica. E, in teoria, si possono anche testare più virtual brand contemporaneamente, per poi scegliere di investire concretamente solo su quelli che avranno ricevuto una risposta positiva dalla clientela. Non esiste oggi analisi di mercato più efficace.
Ma dove porterà tutto questo?
E, soprattutto, sarà un bene per la ristorazione in generale?
Il futuro della Ristorazione
Personalmente credo che il futuro sia già iniziato ieri, nel senso che i virtual brand + dark kitchen andranno solo ad ampliare un trend già ampiamente avviato.
Parlo di tutte quelle aziende ristorative che, in tempi recenti, si specializzano nella vendita di un solo prodotto. A me non dispiacerebbe se le città fossero sempre più popolate da food business mono-prodotto. Perché si presuppone che chi proponga ad esempio solo pasta, o anzi meglio, solo ravioli, dovrebbe fare i ravioli migliori della città!
Dunque, il livello qualitativo ne guadagnerebbe ancora di più, rispetto a oggi.
Immagino aree cittadine diventare vere food-court specializzate, con tavoli e sedie all’aperto condivise da tutte le attività ristorative circostanti e dove una famiglia potrà ordinare piatti da mezza dozzina di diversi ristoranti, accontentando i gusti di tutti con proposte non buone, ma eccellenti. Drink inclusi.
Lavorerebbero tutti e la gente più che ad un ristorante si fidelizzerebbe a quell’insieme di ristoranti.
La Ristorazione classica
E il ristorante classico? Che sia a conduzione familiare o stellato, ma con menu à la carte con i classici antipasti, portate principali e dessert, che fine farà? Finché ci sarà qualcuno che desideri quell’esperienza, la ristorazione classica continuerà a vivere e ad ottenere grande successo.
Perché il vento del cambiamento, come si è visto, può essere sfruttato sì dai mulini a vento (delivery, asporto, virtual brand) ma è anche possibile assecondarlo rimanendo se stessi (ristorazione classica) senza resistergli, come fa una tenda che danza nella brezza, a finestra aperta.
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